L’estate è ancora lontana, tarda a venire.
Voglia di partire, voglia di capire quale sarà la meta delle prossime vacanze.
Voglia di tornare, e per me tornare equivale a tornare a Pantelleria. Dopo Parigi è ” il dove” in cui sono stata più volte. Sarà che quest’anno non la rivedo, non presto, e allora mi manca. Si potrebbe parlare in mille modi di quest’isola, dal territorio, ai beni archeologici, alla buona cucina oggi tanto di moda soprattutto se bio e a chilometro zero (più di cosi!), ma la mia è solo un’ode, il punto di vista assolutamente poetico che ne racconta la regola (poeticadelleregole appunto).
Pantesca di “importazione”, io a Pantelleria non ci sono nata; la sua conoscenza risale a quindici anni fa. Pantesca è un sostantivo, ma è anche un aggettivo perciò una maniera d’essere: faticante, incantevole, fascinosa, scomoda, dura, caotica, primordiale, disinteressata al resto dell’universo, sonnacchiosa, fertile, varia, dotata di una trapunta di stelle rara e profonda, tridimensionale e lattiginosa, Isola profondamente Pantesca!
Il centro con il porto principale è sgarrupato, sempre uguale a se stesso: pochi locali, negozi bellissimi coesistono senza stridere accanto a botteghe del “lela” (termine dialettale varesotto che significa di poco conto, senza rilievo), tra antichi muri bianchi di calce assolati, in vicoli stretti e irregolari della vecchia città, fagocitata da palazzine e villette fatte di blocchetti regolari e marroncini, sinonimo della modernità anni ’50 che invase Pantelleria dopo i bombardamenti del Dopoguerra e che volutamente ne distrussero il centro.
Ma l’entroterra è qualcos’altro: è il susseguirsi del colore verde intenso della vegetazione, che si è fatta bassa per non essere mangiata dal vento, a volte protetta in giardini da muri circolari, e del nero della roccia lavica; dammusi sparsi a popolarla. Pochissimi gli alberghi e quasi sempre fuori luogo. Curve e discese, poi ancora salite, tra vigneti incustoditi a perdita d’occhio.
I fichi d’india nascono tra le rocce un po’ ovunque, e disegnano la fisionomia dell’isola, regalano frutti bellissimi e spinosi, che alla stregua di un fiore di montagna mai nessuno coglierà in punti impervi e improbabili da raggiungere, come le guglie di Notre Dame (quelle che furono) o le torri della Sagrada Familia che custodiscono note e parole dedicate a Maria e solo a Lei visibili.
La terra è fertilissima, le piante trattengono l’acqua nella rugiada della notte e da quel poco fanno faville: uve, limoni, fichi d’india, capperi a volontà, fiori esuberanti. Il mare è presenza costante e riempie gli occhi ovunque si stia guardando. La natura è stata generosa.
Da sempre meta di turismo d’élite, Pantelleria è indifferente e al contempo avvezza ai turisti, vive e lascia vivere .
Non credo i Panteschi sappiano cosa sia la pianificazione urbanistica, né l’ordine, o la cura per il dettaglio, ma l’Isola resta un perfetto esempio di sapiente e astuta progettazione.
Ringrazio Stefano Ruggeri per le bellissime foto, e Paolo che da vero pantesco me l’ha fatta apprezzare
Per consigli di soggiorno:
Per chi ama l’architettura: guardate cosa ho trovato: n.166 della rivista Abitare luglio – agosto 1978!