ARCHITETTURA RESPONSABILE – INTERVISTA CON L’ARCHITE TTO TOBIA MARCOTTI DELLO STUDIO ITI – MILANO

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Studio ITI Milano

Vengo ricevuta sulla porta dall’architetto Tobia Marcotti che con fare cordiale mi accompagna negli spazi dove il team di ITI Studio lavora.

La prima cosa che noto entrando, sono delle sagome appese al soffitto, strani piccoli oggetti, posati in ordine sparso: conchiglie, fogli di carta piegata a mo’ di bruco, una striscia di metallo che racconta i processi di stampaggio di una valvola…. tutti strumenti di lavoro preziosi che aiutano le idee a trovare forma.

 

Mi chiedo, come può un progetto vero, fatto materia pesante, partire da segni così esili, apparentemente insignificanti?

 “DARE FORMA ALLE IDEE COSTRUENDO, SENZA DARE NULLA PER SCONTATO”

Questo è il motto dello studio, nonché la personale e costante preoccupazione, quasi ossessiva dell’architetto Tobia Marcotti di non lasciare nulla al caso, di non dare nulla per scontato. Come a dire che il risultato formale, il volume che io vedo, tocco, abito, l’edificio insomma, è il concretizzarsi di un’idea di valore, non tout court di un’idea. Non una velleità del progettista di fare voli pindarici disegnando un segno suggestivo, anche forte sulla carta e realizzarlo (cosa per altro possibile di per sè con il supporto della tecnologia) ma un’idea di valore, che non prescinde dall’etica.

L’architettura, spiega Tobia, ha molto in comune con le arti, è essa stessa arte in un certo senso, ma ciò che la caratterizza rispetto per esempio alla scultura è che deve anzitutto rispondere a un bisogno, è a servizio dell’uomo. Un concetto che sembrerebbe ovvio, di cui molti grandi architetti hanno parlato, eppure nulla di più difficile da sostenere per chi fa architettura oggi.

Questa posizione “responsabile” rispetto al mestiere dell’architetto, fa sorgere delle domande: si può dire che fare architettura di valore pone dei limiti oggettivi alla progettazione? Fino a che punto l’architettura può sconfinare nella scultura, ad esempio?

Cito Renzo Piano, mentre disquisisce con Cassigoli parlando di tecnologia (era il 2001):

“Non è vero che tutto sta nel progetto. E’ il cantiere che ti dice quali sono le gerarchie, le scelte da compiere per delle decisioni che sulla carta, magari, ti sembravano irrilevanti.”(Renzo Piano – tratto da “La responsabilità dell’architetto” – Conversazione con Renzo Cassigoli.)

Forse la risposta, dico, inizia da qui.

IMPARARE DALLA NATURA

Tobia è rimasto folgorato dallo sguardo che l’architetto Antoni Gaudì aveva sulla realtà, per questi infatti la natura era una fonte continua di ispirazione e di studio, come se non ci fosse più nulla da inventare, ma da scoprire e indagare. Gaudì “traduceva” nei suoi progetti ciò che la natura suggeriva.  Nel periodo degli studi trascorsi presso la ETSAB di Barcellona, Tobia Marcotti conosce ed entra in contatto con questo modo di progettare che ancora oggi lo affascina e lo interroga.

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Tobia Marcotti studente

 

 

L’architettura, racconta Tobia, “ha un peso, ha una certa durevolezza, invecchia, da sempre, e di questo occorre tenere conto senza per forza voler cambiare tutto, ma senza tuttavia dare per scontato che “si fa così perché da sempre così si fa”  per cui, per  esempio,  i rompigoccia sono necessari”.   Di fronte a ogni nuova proposta progettuale occorre cambiare il punto di vista, guardare da lontano per poi ritornare a guardare vicino. Nulla al caso.

IL BISOGNO DI RACCONTARE

Da questa idea di architettura nasce anche il bisogno di raccontare ogni suo lavoro, dalla genesi dell’idea, al progetto, alla sua realizzazione affinchè, per usare la  metafora dell’iceberg,  si possa capire che esiste una parte sommersa, che non vediamo nel progetto finito, ma che ne è il fondamento, che ha generato, da cui non si prescinde. Mi preparo per condurvi all’icerberg.

DENTRO L’ICEBERG –  AMPLIAMENTO OSPEDALE SAN LUCA MILANO

Siamo a Milano all’Ospedale San Luca in Piazzale Brescia. Lo studio ITI si è occupato della progettazione a trecentosessanta gradi, a partire dagli studi di fattibilità, nonché della direzione dei lavori dell’ampliamento dell’esistente struttura ospedaliera posta in Via Spagnoletto. Un percorso iniziato nel marzo 2001, appena dopo la laurea in Architettura conseguita da Tobia Marcotti che prende le redini del progetto, e conclusosi nel 2010 anno in cui i lavori sono stati ultimati.

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Ospedale San Luca – Milano

Progettare un ospedale dà una certa visibilità, soprattutto se si parla di una città come Milano, ma mi piace raccontare che il centro d’interesse di tutta la progettazione è stata la persona, il pensare che quegli spazi sarebbero stati percorsi e abitati soprattutto da persone con problemi di salute, lontane dalla loro casa. Per ogni stanza di degenza il numero assegnato è stato pensato posizionato lungo il corridoio, come segno luminoso e distintivo che facilita l’orientamento agli utenti, a integrazione dell’illuminazione del corridoio. Si tratta di un sistema integrato appositamente progettato per dare ordine, che comprende anche il sistema luminoso della chiamata per gli infermieri.

Nelle stanze di degenza rivolte verso la parte interna dell’edificio, le finestre sono state posizionate ad un’altezza di 30 cm dal pavimento, così che chi deve rimanere a lungo in un letto può vedere cosa succede al di fuori, può percepire il passare delle stagioni e godere della vista del cielo, diversamente per le aperture rivolte su Piazzale Brescia, molto trafficata e rumorosa

Il corridoio, come elemento che congiunge, che collega, all’interno dell’ospedale si declina diversamente a seconda di cosa esso attraversa, questo concetto è nato nel pensiero di Tobia da una trasposizione di ciò che le campate della Basilica di San Ambrogio a Milano gli hanno suggerito: esse non sono tutte uguali, esiste fra loro una gerarchia, ma tutte portano alla meta.

zinco titanio

Ora in questo mio raccontare dall’Iceberg sommerso vi conduco alla terra emersa, e quello che lo sguardo vede allargando la visione, non più nella mente di chi interroga e non più nel racconto del progettista, è l’edifico intero. Esso appare in tutta la sua imponenza e tecnologia come uno “scudo”, una struttura tenace che non ammette frivolezze o capricci per via della sua vocazione funzionale, dell’attitudine severa. Tobia ama definire la struttura ospedaliera come un “animale selvatico”, difficile da domare. Rivestito in lamiera di zinco-titanio,  l’edificio appare caratterizzato dal forte segno della copertura che aggetta sulla pubblica via e si allunga ad abbracciare lo spazio pubblico, protegge e segna visivamente il cuore dell’edificio: l’atrio di accesso. Questo è stato pensato come unico per tutte le utenze, come luogo nevralgico d’incontro e raccolta da cui si diramano i vari percorsi differenziati ai reparti, agli spazi di servizio, ai luoghi di degenza o di lavoro.

 

La zoccolatura è in marmo d’Istria e in marmo Grigio Oriente. Sulla Via Magnasco e sulla Via Montorfano, meno trafficate, l’edificio entra in relazione con gli spazi esterni  e si apre su questi con ampie vetrate.

LA SCUOLA AURORA BACHELET

scuola aurora bachelet milano
Pannelli in lamiera stirata – facciata

Un altro progetto di cui l’architetto Tobia Marcotti mi racconta è quello della  Scuola Aurora Bachelet a Cernusco sul Naviglio (MI), che riunisce gli spazi della scuola primaria, gli spazi della scuola secondaria, e i relativi servizi (biblioteca, mensa, laboratori, palestra…).Il progetto è arrivato finalista all’evento per l’assegnazione del Premio Fondazione Renzo Piano nell’anno 2013.

Tobia Marcotti ha sviluppato il progetto assieme all’amico e archietto  Filippo Resteghini, che fa parte del team di ITI studio. Anche questo progetto è nato dallo sguardo attento al contesto, e l’ispirazione è stata la natura.

L’immagine dell’albero, radicato a terra e dal cui tronco solido si diramano i rami e le foglie, ogni parte con una propria funzione gerarchica e un proprio ruolo. Le radici e il fusto sono rappresentate dal fondamento dell’istituzione, che tramanda e rinnova il sapere, e che nutre i rami, i nidi sopra i rami sono le aule, dove il sapere viene coltivato e poi “spicca il volo”.

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Scuola Aurora Bachelet

L’edificio si sviluppa in due corpi di fabbrica che sono poi gli spazi occupati dalla scuola primaria e gli spazi occupati della scuola secondaria, e hanno un’origine comune: il punto nodale del progetto, rappresentato dall’atrio a doppia latezza . L’atrio è unico e accoglie tutti i tipi di utenze, da qui si diramano i percorsi che conducono ai vari spazi.

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I pannelli frangisole rappresentano le foglie, realizzati  in lamiera stirata diventano la trama stessa della facciata e la disegnano a nuovo con il passare delle ore e dell’intensità della luce, che modula la loro apertura, (con una determinata inclinazione l’ombra è piena, completamente schermata) in corrispondenza delle parti centrali delle finestre, così che sia possibile non solo schermare e proteggere dalla luce ma garantire la visione diretta sull’esterno. Le foglie sono legate al tronco e modulano e ombreggiano le facciate.

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La copertura del corpo che ospita gli spazi della scuola primaria trova anch’essa ispirazione dalle forme della natura: la trave centrale che attraversa l’intera copertura è curva ed è come l’ossatura centrale dello scheletro osseo, su cui si innestano le travi. L’andamento sinuoso della trave di spina fa sì che la copertura sia percepita “in movimento”, come generata da una sinusoide, e questo “gioco” e movimento è chiaramente visibile dagli spazi interni della scuola, in particolare dalla galleria a doppia altezza, che rappresenta non solo il percorso di accesso alle aule, ma l’estensione delle aule stesse, una sorta di piazza, spazio di relazione e incontro, che visivamente entra in relazione con lo spazio esterno attraverso un susseguirsi ritmato di aperture “incorniciate” nel legno, che proiettano verso il mondo esterno e fanno entrare la luce.

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scuola Aurora Bachelet

Una progettazione attenta che risponde ai bisogni di chi la vive e al desiderio di generare bellezza.  

Raccontare e raccontarsi: la Maieutica che smonta e rimonta l’opera finita, per fare sì che ciò che si vede, sia giudicato non con il solo criterio del “mi piace”, non “mi piace” ma che sia il frutto di un personale incontro, di una conoscenza dell’opera: piu’ cose sappiamo, più paragoniamo, più giudichiamo, piu’ siamo partecipi dell’opera e la rigeneriamo perché  non muoia.
Il quadro ha bisogno di chi lo contempla, il poema di chi lo legga, l’architettura di chi la fruisce. Tutto e’ rapporto relazione, e la  relazione nel caso dell’architettura puo’ cambiare la vita in modo sostanziale (abitudini, usi della citta’ e servizi, tempi di spostamento… ). Rigenerare, ecco perché vale la pena raccontare.

Questo racconto termina qui, con l’augurio che Tobia e il suo studio abbiano sempre il desiderio e la capacità di generare bellezza dall’opportunità del servire.

 

 

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